Lettera 26 pubblicata il 15 novembre 2011

LA LITURGIA TRADIZIONALE

COME PONTE ECUMENICO

La messa al bando del rito romano tradizionale è stata quasi un tentativo di cancellare lo scandalo, come dice l'Apostolo (Corinzi, 1, 22-25), provocato dalla Croce di Cristo. Per questioni di ecumenismo. Salvo che, paradossalmente, questa sparizione è stata una catastrofe anche dal punto di vista dell'immagine offerta dalla Chiesa cattolica agli ortodossi, agli anglicani e a molti luterani. Se si vuole piacere troppo agli uomini, purtroppo, si finisce spesso per non essere più considerati degni di stima o anche soltanto di interesse.

Se queste cose possono essere dette oggi con una maggiore libertà rispetto al passato, è comunque sempre decisamente raro sentirle riferite direttamente da un alto prelato. E' stato dunque un momento non banale quello vissuto il 14 maggio scorso dai partecipanti al terzo colloquio romano sul Motu Proprio Summorum Pontificum quando sono state affermate dal Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani in persona, il Cardinale Kurt Koch.

Bisogna riconoscere che l'allocuzione del prelato svizzero, con la quale si indicava la forma straordinaria come strumento per un avvicinamento ecumenico, ha incontrato un grande successo presso il pubblico radunatosi quel giorno all'Angelicum.

Mentre i difensori della riforma liturgica hanno sempre giustificato il Novus Ordo proprio per il suo presunto valore ecumenico, colui che potremmo definire come il “ministro dell'ecumenismo” del Santo Padre ha messo in evidenza le qualità autenticamente ecumeniche della liturgia tradizionale. E non solo nella relazione con le liturgie orientali antiche, cosa che nessuno può mettere in dubbio, ma anche come stimolo a comprendere il Novus Ordo in senso tradizionale. Così, riavvicinando la liturgia nuova alla tradizione, il motu proprio opera un “ecumenismo intra-cattolico”, garanzia di un vero ecumenismo.

Insistendo sul fatto che nessuna dimensione del mistero eucaristico è stata così contestata nel Concilio Vaticano II come la definizione dell'Eucarestia come sacrificio – sacrificio di Gesù Cristo e, al tempo stesso, della Chiesa –, il Cardinale Koch ha anche considerato legittimo il timore che questo contenuto fondamentale della fede eucaristica cattolica possa finire nel dimenticatoio più totale.

Infine il Cardinale ha utilizzato delle espressioni pittoresche per ricordare che i padri conciliari non avevano previsto in nessun momento che si cambiasse la direzione degli altari e che la messa verso il popolo prendesse il sopravvento in totale spregio della tradizione liturgica. “Si sono mai lamentati i passeggeri di un autobus del fatto che il conducente volgesse loro le spalle e guardasse la strada davanti a sé?” ha domandato prima di specificare che la forma ordinaria del rito romano è l'unica a volgere le spalle a Dio contrariamente ad ogni uso liturgico. Verrebbe mai in mente a un musulmano, ovunque si trovi, di non pregare verso la Mecca? E ad un ebreo di non guardare verso il mizrah, il muro che rappresenta Gerusalemme? Quanto agli ortodossi, non officiano forse dietro l'iconostasi? Oggi solo i cattolici hanno smesso di pregare rivolti verso il Signore.

Queste affermazioni forti, che hanno suscitato l'entusiastica approvazione della sala, purtroppo sono ancora un po' troppo fastidiose per alcuni. Difatti L'Osservatore Romano non le ha riprese nella sua pagina del 15 maggio 2011 dedicata all'intervento del Cardinale Koch di cui vi proponiamo ampi stralci nel nostro articolo di questo mese.

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La riforma della liturgia non può essere una rivoluzione. Essa deve tentare di cogliere il vero senso e la struttura fondamentale dei riti trasmessi dalla tradizione e, valorizzando prudentemente ciò che è già presente, li deve sviluppare ulteriormente in maniera organica, andando incontro alle esigenze pastorali di una liturgia vitale». Con queste parole illuminanti il grande liturgista Josef Andreas Jungmann ha commentato l’articolo 23 della costituzione sulla sacra liturgia del concilio Vaticano II, dove vengono indicati gli ideali che «devono servire da criterio per ogni riforma liturgica» e di cui Jungmann ha detto: «Sono gli stessi che sono stati seguiti da tutti coloro che con avvedutezza hanno richiesto il rinnovamento liturgico». Diversamente, il liturgista Emil Lengeling ha affermato che la costituzione del concilio Vaticano II ha segnato «la fine del medioevo nella liturgia» ed ha operato una rivoluzione copernicana nella comprensione e nella prassi liturgica.

Ecco qui menzionate le due facce interpretative opposte, che costituiscono il punto cruciale della controversia sviluppatasi intorno alla liturgia dopo il concilio Vaticano II: la riforma liturgica postconciliare deve essere presa alla lettera ed intesa come «ri-forma» nel senso di un ripristino della forma originaria e quindi come ulteriore fase all’interno di uno sviluppo organico della liturgia, oppure questa riforma va letta come una rottura con l’intera tradizione della liturgia cattolica e addirittura la rottura più evidente che il Concilio abbia realizzato, ovvero come la creazione di una nuova forma?

Il fatto che i padri conciliari intendessero la riforma solo nel senso della prima affermazione è stato approfonditamente mostrato soprattutto da Alcuin Reid. Tuttavia, in ampi circoli all’interno della Chiesa cattolica si è sempre di più imposta la seconda interpretazione, che vede nella riforma liturgica una rottura radicale con la tradizione e intende addirittura promuoverla. Questo sviluppo ha condotto, nella comprensione e nella prassi liturgica, a nuovi dualismi.

È certo che il motu proprio potrà far compiere passi avanti nell’ecumenismo solo se le due forme dell’unico rito romano in esso menzionate, ovvero quella ordinaria del 1970 e quella straordinaria del 1962, non vengono considerate come un’antitesi ma come un mutuo arricchimento. Poiché il problema ecumenico si cela in questa fondamentale questione ermeneutica.

Un primo dualismo afferma che prima del Concilio la santa messa era intesa soprattutto come sacrificio e che dopo il Concilio essa è stata riscoperta come cena comune. Nel passato si è naturalmente parlato dell’Eucaristia come di un «sacrificio della messa». Oggi però questo aspetto non solo è meno conosciuto, ma è stato addirittura accantonato o semplicemente dimenticato. Nessuna dimensione del mistero eucaristico è diventata tanto contesa dopo il concilio Vaticano II quanto la definizione dell’Eucaristia come sacrificio, sia come sacrificio di Gesù Cristo che come sacrificio della Chiesa, al punto che vi è da temere che un contenuto fondamentale della fede eucaristica cattolica possa finire completamente nell’oblio. Contro tale dualismo, il Catechismo della Chiesa cattolica tiene unito ciò che è indivisibile: «La messa è a un tempo e inseparabilmente il memoriale del sacrificio nel quale si perpetua il sacrificio della croce, e il sacro banchetto della comunione al Corpo e al Sangue del Signore».

Un ulteriore dualismo intorno al quale tende a polarizzarsi la visione di una liturgia preconciliare e di una liturgia postconciliare sostiene che, prima del Concilio, era soltanto il sacerdote il soggetto della liturgia, mentre dopo il Concilio l’assemblea è stata elevata al ruolo d’onore di soggetto della celebrazione liturgica. Certo è indiscutibile che, nel corso della storia, il ruolo originario di tutti i fedeli come co-soggetti della liturgia sia andato man mano scemando e che l’ufficio divino comunitario della Chiesa primitiva nel senso di una liturgia che vedeva partecipe l’intera comunità abbia assunto sempre più il carattere di una messa privata del clero. L’esistenza di una continuità di fondo tra la liturgia antica e la riforma liturgica avviata dal concilio Vaticano II traspare dalla visione ampia e approfondita della costituzione liturgica, secondo cui il culto pubblico integrale è esercitato «dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra» e ogni celebrazione liturgica deve essere pertanto considerata come «opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa». Il Catechismo aggiunge poi: «alcuni fedeli sono ordinati mediante il sacramento dell'Ordine per rappresentare Cristo come Capo del Corpo».

Alla luce del primato cristologico dovrebbe essere evidente che la liturgia cristiana trova il suo senso più profondo nella glorificazione e nell’adorazione del Dio trino e dunque nella santificazione degli uomini. Anche questa dimensione fondamentale della liturgia è diventata vittima di un ulteriore dualismo nel periodo postconciliare, ovvero è stata sempre più assorbita dal concetto di partecipazione. Qui si tratta però di una falsa contrapposizione. Noi possiamo e dobbiamo consumare il cibo eucaristico anche con gli occhi e penetrare così nel mistero eucaristico, affinché esso poi ci si riveli pienamente nel mangiare il Corpo del Signore e nel bere il suo Sangue. Lo stesso Agostino amava sottolineare che nessuno deve mangiare «di questa carne» se non l’ha prima adorata: «Nemo autem illam carnem manducat, nisi prius adoravit».

Tra la liturgia antica e la riforma liturgica postconciliare non c’è una rottura radicale ma una continuità di fondo. Soltanto alla luce di questa convinzione si può comprendere il motu proprioSummorum pontificum di Papa Benedetto XVI. Il Santo Padre infatti non intende la storia liturgica come una serie di spaccature, ma come un processo organico di crescita, di maturazione e di auto-purificazione, nel quale naturalmente possono verificarsi sviluppi e progressi, senza però che continuità e identità vengano distrutte. Per il Papa non può esserci pertanto una contrapposizione tra la liturgia del 1962 e la liturgia riformata postconciliare. In contrasto con questa chiara visione di sviluppo organico, la riforma liturgica postconciliare è considerata in ampi circoli della Chiesa cattolica come una rottura con la tradizione e come una nuova creazione; essa ha generato una controversia sulla liturgia che, vissuta in maniera emozionale, continua tutt’oggi a farsi sentire. Con il motu proprioSummorum pontificum, Papa Benedetto XVI ha voluto contribuire alla risoluzione di tale disputa e alla riconciliazione all’interno della Chiesa. Il motu proprio promuove infatti, se così si può dire, un «ecumenismo intra-cattolico». Ma questo presuppone che la liturgia antica venga intesa anche come «ponte ecumenico». Infatti, se l’ecumenismo intra-cattolico fallisce, la controversia cattolica sulla liturgia si estenderà anche all’ecumenismo e la liturgia antica non potrà svolgere la sua funzione ecumenica di costruttrice di ponti.

Anche se il motu proprio vuol favorire la pace intra-ecclesiale, non sarebbe giusto vedervi solo una concessione fatta ai cattolici che propendono per la liturgia antica, come la Fraternità Sacerdotale San Pietro o i seguaci dell’arcivescovo Marcel Lefebvre. Papa Benedetto XVI è convinto, piuttosto, che la forma straordinaria del rito romano sia un patrimonio prezioso che non deve essere relegato al passato, ma a cui si deve attingere anche nel presente e nel futuro, come ha sottolineato nella lettera di accompagnamento al motu proprio: «Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e dar loro il giusto posto.

Cardinale Kurt Koch
15 maggio 2011
http://www.osservatoreromano.va