Lettera 100 pubblicata il 16 aprile 2018
La messa di Paolo VI: un sacrificio diluito
Dopo la nostra lettera 616 dedicata all'analisi del nuovo messale negli aspetti relativi al cerimoniale, abbiamo dedicato una prima lettera, la 620 intitolata "un'emorragia del sacro", al contenuto stesso di questo messale promulgato il 3 aprile 1969. Vogliamo completarla ora con le nostre riflessioni sulla più grave delle sue deficienze dal punto di vista dottrinale e spirituale: l'espressione indebolita della messa come sacrificio propiziatorio.
Il contesto di "rivalutazione" del sacrificio della messa
Il Concilio di Trento, rispondendo agli errori protestanti, aveva affermato la perfezione dell'unico sacrificio della croce, dal quale soltanto può venire la redenzione. Aveva anche affermato che Cristo, durante la cena, aveva lasciato alla sua Chiesa un sacrificio visibile "vero e proprio sacrificio" (DZ 1751), compiuto dai preti partecipanti al suo sacerdozio, in cui sarebbe rappresentato in modo non cruento quello del Golgota, in modo tale che la virtù salvifica di questo possa operare la redenzione dei peccati fino alla fine dei tempi. (Dz 1740).
La teologia post-tridentina, per
quattro secoli, si è sforzata di definire cosa sia l'essenza del sacrificio
della messa. Pio
XII, nella Mediator
Dei (20
novembre 1947), aveva precisato questo punto nel modo più
vicino all'insegnamento di San Tommaso (1): "L'augusto Sacrificio dell'altare non è,
dunque, una pura e semplice commemorazione della passione e morte di Gesù
Cristo, ma è un vero e proprio sacrificio, nel quale, immolandosi
incruentamente, il Sommo Sacerdote fa ciò che fece una volta sulla Croce
offrendo al Padre tutto se stesso, vittima graditissima. (...) ma la divina
sapienza ha trovato il modo mirabile di rendere manifesto il sacrificio del
nostro Redentore con segni esteriori che sono simboli di morte. Giacché,
per mezzo della transustanziazione del pane in corpo e del vino in sangue di
Cristo, come si ha realmente presente il suo corpo, così si ha il suo sangue;
le specie eucaristiche poi, sotto le quali è presente, simboleggiano la cruenta
separazione del corpo e del sangue."
Alla
fine degli anni sessanta, la nozione di "sacrificio per i peccati" e
di "soddisfazione vicaria" (Cristo ha preso su di lui i peccati degli
uomini per per operarne la riparazione al loro posto) subiva critiche frontali. Erano infatti usuali attacchi come quelli di Hans
Küng, che allora non era considerato un estremista: "La teologia della
controriforma ha subito le conseguenze, nella dottrina eucaristica, di alcuni aspetti che danno da riflettere: l'abbandono dell'aspetto memoriale, sul quale
si insisteva ancora molto nel Medio Evo, e dell'aspetto comunione, come effetto diretto dell'insistenza sull'aspetto sacrificio. Ora, proprio la nozione
di sacrificio e la sua attualizzazione pongono molte domande rimaste senza risposta".
(Le
Concile, épreuve de l’Église, Seuil, 1962)
In modo più ampio, si manifestava un certo disagio ad affermare il carattere di atto sacrificale in senso proprio della messa. Per certi teologi, la messa, invece di essere sacrificio vero e sacramentale, costituiva piuttosto un sacrificio di oblazione della Chiesa, captando il sacrificio di oblazione-immolazione fatto da Cristo al Calvario sempre presente nel cielo agli occhi di Dio, senza ripetizione sacrificale propriamente detta nella forma sacramentale. Così, in Faites ceci en mémoire de moi (Cerf, 1962), Dom Casel (morto nel 1948), riteneva per esempio che l'atto unico del sacrificio del Calvario divenisse presente in modo misterico durante la messa, non essendo il sacrificio della messa un atto sacrificale vero e proprio. Un'ampia gamma di coloro che proponevano questo nuovo approccio teologico, amavano riassumerlo dicendo: "La messa non è un sacrificio, è Il sacrificio". Piuttosto caratteristico era il pensiero di Jacques Maritain, elaborato in dialogo con Charles Journet, secondo il quale la transustanziazione si accompagnava ad una sorta “di presenza reale" del sacrificio della croce (2).
Nel contesto ecumenico della
composizione del Novus Ordo Missæ, non si negava il riferimento
sacrificale della messa, ma dava fastidio affermare che la messa stessa fosse un
sacrificio. Questa opinione teologica, divenuta comune nella teologia insegnata, si ritroverà d'altra parte nelle
spiegazioni dottrinali che hanno accompagnato la riforma liturgica da Paolo VI
in poi. Spiegazioni non false, ma deboli: "Quando la Chiesa celebra l'Eucaristia,
fa memoria della Pasqua di Cristo, e questa diviene presente: il sacrificio che
Cristo ha offerto una volta per tutte sulla croce è attuale sempre" (CEC,
1364, ma anche 1362, 1366); "L’Eucaristia è così, nella Chiesa,
l’istituzione sacramentale che, in ogni periodo serve da “collegamento” al
Sacrificio della Croce, che offre una presenza insieme reale e operante."
(Messaggio di Giovanni Paolo II al Congresso eucaristico di Lourdes del 21
luglio 1981).
La diminuzione dell'aspetto sacrificale del nuovo Ordo
Per esempio, nel momento più solenne, il nuovo messale ha spostato l'attenzione che la liturgia della messa fino a quel momento aveva rivolto come prima cosa al sacrificio del Venerdì santo (il sangue versato per noi), guardando al mistero pasquale nel suo insieme, inteso come morte e resurrezione (3). Così, il mysterium fidei, che era inserito nella consacrazione del Preziosissimo Sangue, come una esplicitazione della consacrazione del calice che portava a compimento il sacrificio eucaristico - il mistero della fede celebrato hic et nunc, è il Sangue versato in remissione dei peccati (4) - viene ricollocato dopo la consacrazione , come introduzione alle acclamazioni. Da questo momento assume un significato più ampio: non è più solamente il mistero dell'eucarestia, sacrificio e sacramento, ma sono indicati il mistero della morte e resurrezione, e della parusia, la seconda venuta di Gesù Cristo: "Mistero della fede. Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione, nell'attesa della tua venuta."
La croce non è più
obbligatoriamente collocata al centro dell'altare per dominare la celebrazione
del sacrificio, ma può essere messa "accanto" (Ordinamento generale del messale romano, n. 308). Viene mantenuto
un solo segno della croce sulle offerte non consacrate, al posto dei ventotto
di benedizione o designativi fatti dal sacerdote sulle offerte prima e dopo la
consacrazione, o con l'ostia o il calice, come previsto nell'Ordo antico (Per ipsum, commissione, comunione).
La
breve Prex
eucharistica II, versione adattata della Tradizione apostolica di Ippolito,
come ricostruita da Gregory Dix e Dom Botte, in modo che però oggi è oggetto di
ampie discussioni, riflette un'espressione teologica arcaizzante, che non
esprime il sacrificio del pane e del vino consacrati che in un modo molto
implicito ("per la comunione al corpo e al sangue di Cristo, lo Spirito
Santo ci riunisca in un solo corpo").
Sono
state eliminate inoltre numerose preghiere per il perdono dei peccati: quelle della salita all'altare, come abbiamo già detto; le
preghiere dell'offertorio, sulle quali ritorneremo; le due preghiere per la
purificazione dell'anima e timore del giudizio prima della comunione ridotte ad
una a scelta.
È stata soppressa l'ultima orazione del
sacerdote prima di dare la benedizione, Placeat
tibi sancta Trinitas, molto
espressiva del sacrificio compiuto: "Ti sia gradito, santa Trinità,
l'omaggio del tuo servo: questo sacrificio che malgrado la mia indegnità ho
offerto allo sguardo della tua maestà, sia a te accetto e, grazie alla tua
misericordia, sia propizio a me e a tutti coloro per i quali l'ho offerto."
Il canone romano, particolarmente esplicito nell'espressione del sacrificio, con la ripetizione dei termini "sacrificio" al singolare e al plurale, "offerte", "noi offriamo", "oblazione", non è ormai altro che una delle preghiere eucaristiche possibili, poco utilizzata da celebranti che temono di essere ormai tacciati di "integralismo". Per il resto, le parole sanctum sacrificium, immaculatam hostiam, "sacrificio santo, ostia immacolata", aggiunte da san Leone Magno all'orazione Supra quæ propiti, dell'antico canone romano, sono tradotte in italiano con l'espressione "in segno di sacrificio perfetto".
Ma il maggiore ridimensionamento dell'aspetto sacrificale risulta dalla soppressione dell'offertorio tradizionale, sostituito da una "preparazione dei doni". Ora, questo termine di offertorio è sempre stato inteso nel suo forte significato di sacrificio. Del resto il canone si presenta come un "offertorio", ovverosia un'oblazione sacrificale al Padre attraverso il Figlio. In questo insieme che costituisce l'intera azione eucaristica, le liturgie latine e orientali (queste ultime in modo molto insistente) hanno sempre considerato le offerte portate nel santuario e scoperte sull'altare come consacrate e sacrificate in anticipo.
È naturale che, dal VII all'XI secolo, si siano fissate nella liturgia romana, come anche nelle altre liturgie latine e orientali, queste preghiere di offerta sacrificale delle ostie da consacrare: "Accetta, o Padre Santo, Dio onnipotente ed eterno, questa ostia immacolata che io, indegno tuo servo, offro a Te, mio Dio, vivo e vero, per i miei innumerevoli peccati, offese e negligenze"; "Ti offriamo, Signore, il calice della salvezza"; "Accetta, o Trinità Santa, quest'offerta che ti presentiamo in memoria della Passione, Risurrezione ed Ascensione di nostro Signore Gesù Cristo"; "Ci presentiamo dinnanzi a voi, o Signore, in spirito di umiltà e con un cuore contrito. Riceveteci e fate che il nostro sacrificio si compia oggi dinnanzi a voi di maniera che vi sia accettevole, o Signore nostro Dio"; "Pregate, fratelli, perché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente".
Il desiderio di un ritorno ad un rituale antico, per come lo si immaginava ovverosia una semplice presentazione di doni in processione, insieme ad una ricerca creativa per le processioni delle offerte come "frutti della terra e del lavoro", condusse alla soppressione del preteso "raddoppiamento" dell'offertorio romano.
Tuttavia si deve a
Paolo VI la reintroduzione della parola offerimus nella
presentazione del pane e in quella del vino, come anche della preghiera Orate
fratres e della risposta Suscipiat, che lui amava molto e
che le traduzioni hanno dimenticato, come vedremo.
Gli esperti fabbricarono delle benedizioni sul modello del berakha ebraico per le benedizioni della frazione del pane durante i pasti cerimoniali (così: "Sii benedetto, Signore nostro Dio, Re dell'Universo, che crei il frutto della vigna "). Oggi, questa ispirazione provoca in effetti qualche disagio difatti, dato che le tesi che immaginavano ingenuamente una preghiera ebraica immutata per otto o nove secoli sono state definitivamente archiviate. È anche possibile che certe apologie o altre preghiere dell'offertorio tradizionale siano antiche almeno quanto le benedizioni ebraiche.
Resta il fatto che, gli
eruditi esperti del Consilium hanno
eliminato l'offertorio romano assieme a tutta la spiegazione del sacrificio
attraverso la tradizione liturgica che esso rappresentava. In definitiva, la
"preparazione dei doni" che lo rimpiazzò è divenuta questa nel
messale italiano:
- Accolti
i doni, il sacerdote alza leggermente la patena e dice: "Benedetto sei tu,
Signore, Dio dell’universo, dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane,
frutto della terra e del lavoro dell’uomo; lo presentiamo a te perché diventi
per noi cibo di vita eterna" (invece, nel messale tridentino si aveva:
"Accetta, o Padre Santo, Dio onnipotente ed eterno, questa ostia immacolata
che io, indegno tuo servo, offro a Te, mio Dio, vivo e vero, per i miei
innumerevoli peccati, offese e negligenze, e per tutti i circostanti, come pure
per tutti i fedeli cristiani vivi e defunti: affinché giovi alla mia e
alla loro salvezza per la vita eterna. Amen").
- Lavandosi le mani: "Lavami, Signore, da ogni colpa, purificami
da ogni peccato".
È chiaro
che le espressioni di offerta sacrificale (dell'"ostia immacolata",
per i peccati del sacerdote e per la salvezza di "tutti i fedeli cristiani
vivi e morti", del "calice salutare" nel profumo soave di fronte
alla maestà divina, per la salvezza del mondo intero) siano state seriamente
ridimensionate.
Uno scivolamento verso il "fare
semplicemente memoria"
Ciascuno degli elementi esaminati in questa lettera e nelle due che l'hanno preceduta può sembrare di importanza relativa se preso di per sé. Ma la somma risulta invece molto coerente: a partire dall'abbandono di un rituale, con la moltiplicazione obbligatoria delle opzioni, fino alla celebrazione, nella maggior parte dei casi, faccia al popolo, all'uso generalizzato delle lingue comuni, alla grande libertà nelle ammonizioni ed ai commenti al posto delle parole, praticamente sempre ad alta voce, a scapito del rituale segreto e sacro, dalla riverenza indebolita nei confronti dell'eucarestia all'espressione più debole del sacerdozio gerarchico e della realtà del sacrificio sacramentale, passando attraverso l'adozione di un certo numero di gesti ed usi della vita ordinaria, tutto l'insieme di queste "piccole" trasformazioni porta a scivolare dal fare memoria al fare solo memoria.
Pertanto,
noi non rimettiamo in causa la validità di questa messa nuova, ma tuttavia, in
ragione del fatto che la struttura del rito e delle preghiere è molto più elastica
rispetto all'Ordo antico, la questione della legittimità può giustamente porsi nel caso di celebrazioni fantasiose o blasfeme che certi
sacerdoti credono di potersi permettere approfittando di questa normativa più
morbida.
Ma non sono soltanto i preti "progressisti" che si prendono ampi spazi nell'ambito di questo rituale del NOM (Novus Ordo Missae) così poco normativo. Anche i sacerdoti "classici" lo fanno, in senso
inverso (genuflessioni interminabili, commenti insistenti: "Ora il
sacerdote va a consacrare il pane che diverrà veramente il Corpo del
Signore", ecc.). Si può anche dire che il fatto che il sacerdote diventi
quasi protagonista, caratteristica della messa nuova, è una sorta di obbligo
compensatorio delle mancanze di questa messa. Perché la celebrazione non divenga altro che un semplice memoriale, i celebranti più pii del NOM cercano
di manifestare la loro fede e la loro pietà personale per supplire ai limiti
intrinsechi di questo Ordo. Meno il rito parla di presenza reale e di
sacrificio, più il prete si vede costretto a manifestare che lui crede al fine
di stimolare la fede di chi assiste. Cosa che contrasta diametralmente con il principio
fondamentale di oggettività dei sacramenti che producono infatti la grazia, non
in virtù di quanto crede personalmente il celebrante, ma perché lui opera
pubblicamente nel nome della Chiesa.
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(1) Durante il sacrificio della messa, la morte salvatrice di Cristo è
riprodotta sacramentalmente nella specie separate consacrate in Corpo e Sangue
che simbolizzano la separazione violenta della croce (Somma teologica, q 77 a 7 ; Somma
contro i Gentili, l 4, c 61).
(2) Vedere Philippe-Marie Margelidon, "La théologie du sacrifice
eucharistique chez Jacques Maritain", nella Revue Thomiste (gennaio-marzo
2015, pp. 101-147).
(3) Inteso come morte e resurrezione. Si noti che l'espressione può anche
significare la morte del Signore. Per esempio, nell'orazione del Venerdì Santo:
"…Cristo, tuo Figlio, inaugurò nel suo sangue il mistero pasquale", per suum cruorem, instituit paschale mysterium.
(4) "Questo è il calice del mio sangue, per
la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti, in remissione dei peccati.