Lettera 91 pubblicata il 20 aprile 2017

IL CANTO LITURGICO NELLE MISSIONI (2)

Ecco la seconda parte del sesto articolo a firma del maestro Aurelio Porfiri sulla questione della musica sacra. Prendendo spunto di un riassunto storico del magistero negli ultimi due secoli, il maestro ci offre una serie di riflessioni che vanno ben aldilà della questione musicale ma interrogano il rapporto fra la civiltà europea e il "nuovo mondo".


… Benedetto XV e Pio XI

La Maximum Illud (30 novembre 1919) di Benedetto XV è probabilmente uno dei documenti più importanti per quello che concerne l'attività missionaria. Non entriamo nel merito del documento, in quanto non oggetto di questo studio. Menzioniamo qui l'importante affermazione che fa il Pontefice della necessità di coltivare un solido clero indigeno: "Affinché però possa conseguire i frutti sperati, è assolutamente necessario che il clero indigeno sia istruito ed educato come si conviene. Non è quindi sufficiente una formazione qualsiasi e rudimentale, tanto da poter essere ammesso al sacerdozio, ma essa deve essere completa e perfetta come quella che si suol dare ai sacerdoti delle nazioni civili. Insomma, non si deve formare un clero indigeno quasi di classe inferiore, da essere soltanto adibito nelle mansioni secondarie, ma tale che, mentre si trovi all’altezza del suo sacro ministero, possa un giorno assumere egli stesso il governo di una cristianità. Poiché, come la Chiesa di Dio è universale, e quindi per nulla straniera presso nessun popolo, così è conveniente che in ciascuna nazione vi siano dei sacerdoti capaci di indirizzare, come maestri e guide, per la via dell’eterna salute i propri connazionali. Dove dunque esisterà una quantità sufficiente di clero indigeno ben istruito e degno della sua santa vocazione, ivi la Chiesa potrà dirsi bene fondata, e l’opera del Missionario compiuta. E se mai si levasse il nembo della persecuzione per abbattere quella Chiesa, non vi sarebbe da temere che, con quella base e con quelle radici così salde, essa non soccomberebbe agli assalti nemici". Un importante passaggio, parlando di coloro che devono essere convertiti, afferma: "Questi, infatti, quantunque barbari e selvaggi, comprendono sufficientemente ciò che vuole e cerca da loro il Missionario, e conoscono, si direbbe al fiuto, se egli ha per caso altre mire all’infuori del loro bene spirituale. Poniamo che egli non abbia del tutto deposto questi intenti umani, e non si comporti pienamente da vero uomo apostolico, ma dia motivo a supporre che egli faccia gl’interessi della sua patria; senz’altro tutta l’opera sua diverrà sospetta alla popolazione; la quale facilmente sarà indotta a credere che la religione cristiana non sia altro che la religione di una data nazione, abbracciando la quale uno viene a mettersi alla dipendenza di uno stato estero, rinunciando in tal modo alla propria nazionalità".

Questo è un punto importante, che il testo di Papa Benedetto XV ci da la possibilità di chiarire. Fa bene il Papa a frenare le velleità colonialistiche che certamente erano presenti in alcuni missionari, come se oggetto della missione fosse di estendere il potere della propria nazione. Ciò non toglie che bisogna intendersi bene su quello che i missionari intendevano comunicare. Non si nega che spesso essi portassero nozioni scientifiche e artistiche proprie della propria nazione, ma questo non era un male per i popoli evangelizzati, in quanto queste nozioni consentivano un miglioramento drammatico delle condizioni di vita da un punto di vista sanitario, igienico e culturale. Molti di questi popoli, anche in Asia, pur avendo una propria cultura tradizionale, erano impotenti di fronte ad alcune malattie che grazie alla scienza portata dai missionari, potevano essere affrontate. Ma nel caso della liturgia o teologia, cioè delle cose più strettamente di interesse per il missionario, essi non stavano imponendo una cultura europea, ma una cultura cattolica, da cui l'europea deriva.

Questo fondamentale errore di comprensione viene ripetuto nei decenni successivi, dimenticando, più o meno intenzionalmente, che proporre il canto gregoriano o l'arte sacra dei grandi maestri non significa imporre un'arte colonizzata ed europea, ma un'arte cattolica che ha dato poi, e solo poi, vita all'Occidente culturale. Quindi si deve distinguere tra colonizzazione politico culturale, che è sbagliata, ed evangelizzazione attraverso la cultura cattolica che è sacrosanta. Benedetto XV poi fa una osservazione importante, che mostra come si tenesse al rispetto dei popoli, pur se non espresso con il tanfo di politically correct a cui siamo abituati oggi: "La prima cosa che il Missionario deve conoscere è la lingua del popolo, alla cui conversione intende dedicarsi. E non basta che ne abbia una conoscenza qualsiasi, ma bisogna che la possieda in modo da poterla parlare correttamente e con speditezza. Infatti egli è debitore ad ogni sorta di persone, tanto ai rozzi quanto ai sapienti; né può ignorare quanto sia facile ad uno che parli bene, accattivarsi la benevolenza di tutti. Riguardo alla spiegazione della dottrina cristiana, il diligente Missionario non l’affidi ai catechisti, ma la tenga per sé come una mansione tutta sua propria, anzi come il principale dei suoi obblighi, ben sapendo che per nessun altro scopo egli è stato mandato da Dio se non per predicare il Vangelo. Talvolta può accadere che come ministro e rappresentante della santa religione egli debba comparire davanti alle autorità del paese, oppure sia invitato a qualche adunanza di dotti: e allora come potrebbe sostenere il decoro del suo grado, se, per ignoranza della lingua, non sapesse esprimere i suoi pensieri?". Eccoci a parlare ancora di un altro elemento importante.

La lingua non è un elemento accessorio dei popoli: ne è elemento costituente dal punto di vista spirituale, sociale e culturale. Il poeta dialettale Ignazio Buttitta diceva che ai popoli gli puoi togliere il lavoro, il passaporto, il tavolo dove mangia...ma questo popolo può essere ancora ricco. Ma togligli la lingua ed esso è perso per sempre. Ecco, se applichiamo quello che Buttitta dice nella sua poesia ai popoli delle terre di missione, quello che il Papa Benedetto XV vuole dire è: quando evangelizzate i popoli, dovete cercare di approssimarli al livello più profondo del loro spirito, che non sono certe tradizioni accessorie o certi elementi culturali, ma la lingua, che queste tradizioni ed elementi concentra e supera. Ecco come la Chiesa faceva sana inculturazione, non rifiutando quello che c'era di buono nei popoli, ma cercando di tirarlo fuori per ridonarlo ad essi, attraverso il contatto con la grande cultura cattolica, in una sintesi più alta.

Nella Rerum Ecclesia di Pio XI (28 febbraio 1926) si insiste sull'importanza di formare nelle missioni un clero indigeno, con l'avvertenza che esso sia ben formato e preparato per il compito che si preparano a svolgere. Il Pontefice insiste sul fatto che il clero indigeno deve essere presto in grado di prendere in mano la Chiesa stessa, non semplicemente servire i missionari nella loro opera. Il Papa fa anche l'esempio dei primi secoli, quando si metteva a capo delle Chiese locali delle persone del luogo. E il Papa insiste molto sull'importanza della formazione: "Se ciascuno di voi deve procurarsi il maggior numero possibile di chierici indigeni, dovete anche studiarvi di indirizzarli e formarli alla santità che si addice al grado sacerdotale e a quello spirito di apostolato congiunto allo zelo della salute dei propri fratelli, in modo che siano pronti a dare persino la vita per i membri della propria tribù e nazione. Importa tuttavia moltissimo che al medesimo tempo questi alunni ricevano una buona e profonda formazione scientifica, sacra e profana, chiara e metodica, e non con corsi troppo accelerati e sommari, ma con il solito corso di studi. Persuadetevi infatti che se nei Seminari formerete soggetti esimi per illibatezza di vita e per pietà, abili ai ministeri e assai esperti nell’insegnamento della legge divina, preparerete uomini che non solo si attireranno in patria la stima anche delle autorità e dei dotti, ma potranno un giorno esser destinati al governo delle parrocchie e delle diocesi, che verranno erette non appena a Dio così piacerà, con buona speranza di frutto".

Anche qui non manca l'enfasi sulla necessità di conoscere bene la cultura e la lingua dei paesi che si va ad evangelizzare, non si tratta semplicemente di infondere qualcosa dal di fuori alle persone, ma piuttosto di cercare un incontro fra il cattolicesimo e la cultura di arrivo: "Né è da tacersi un altro punto importantissimo per la diffusione del Vangelo; quanto cioè giovi moltiplicare il numero dei catechisti, siano essi scelti tra gli europei o, meglio ancora, tra gli indigeni, perché aiutino i Missionari istruendo i catecumeni e preparandoli al Battesimo. Non occorre dire di quali doti essi debbano essere forniti per poter trarre a Cristo gl’infedeli più con l’esempio che con le parole; e voi, Venerabili Fratelli e Figli Diletti, proponetevi fermamente di educarli con ogni cura affinché apprendano bene la dottrina cattolica, e nel trattarla e spiegarla sappiano adattarsi all’ingegno e all’intelligenza degli uditori; a ciò riusciranno tanto più agevolmente quanto più intimamente conosceranno l’indole degli indigeni". Questo richiamo alla conoscenza dell'indole dei popoli in terra di missione è anche senza dubbio importante.
  
Lo stesso Papa, nella Divini Cultus Sanctitatem del 1928, a 25 anni dal Motu Proprio di San Pio X, non farà diretto riferimento alle missioni ma ribadirà i principi contenuti nel grande documento di San Pio X con enfasi ancora più forte sulla necessità che il popolo possa partecipare ai sacri riti in modo più pieno, facendo uso dei canti gregoriano che al popolo possono essere destinati.

… per finire con Pio XII

Papa Pio XII fu certamente un pontefice con una forte sensibilità liturgica, il che si può senz'altro vedere dai vari documenti che egli dedica alla liturgia, come la sua enciclica probabilmente più famosa, Mediator Dei (20 novembre 1947). In essa il Pontefice non parla specificamente della musica nelle missioni ma offre un chiaro inquadramento della materia liturgica con accenni anche al ruolo in essa della musica e dell'arte sacra. A 25 anni dalla Rerum Ecclesiae, ecco una enciclica sulle missioni da parte di Pio XII, Evangelii Praecones (2 giugno 1951). Il Papa con questa enciclica si mette sulla scia del suo predecessore, ma con una enfasi particolare nel raccomandare ai missionari di investire nelle scuole, ospedali, assistenza sociale, in modo da venire in contatto più profondo e proficuo con le popolazioni locali.

Un punto di fondamentale importanza nell'enciclica di Pio XII è contenuto nel passaggio che segue, di cui forniamo vari estratti: "Vi è un altro punto ancora che è Nostro vivo desiderio di presentare a tutti nella luce più chiara. È stata norma sapientissima, costantemente seguita dalla chiesa, dalle origini ai nostri giorni, che l'Evangelo non dovesse distruggere né soffocare ciò che vi fosse di buono, di onesto e di bello nell'indole e nei costumi dei vari popoli che lo avevano abbracciato. La chiesa nel condurre i popoli a una civiltà più elevata sotto l'influsso della religione cristiana, non si comporta come chi senza alcuna distinzione taglia, abbatte e distrugge una selva lussureggiante, ma piuttosto come chi innesta nuovi sani virgulti sui vecchi ceppi, affinché possano a loro tempo produrre e maturare frutti più squisiti e delicati. (...) Perciò la chiesa cattolica non disprezzò o rigettò completamente il pensiero pagano, ma piuttosto, dopo averlo purificato da ogni scoria di errore, lo completò e lo perfezionò con la sapienza cristiana. Così pure accolse benevolmente il progresso nel campo delle scienze e delle arti, che in alcuni luoghi raggiunse altezze veramente sublimi, e lo perfezionò diligentemente innalzandolo a fastigi di bellezza forse prima mai raggiunti. E neppure soppresse del tutto i costumi e le antiche istituzioni dei popoli, ma in qualche maniera li consacrò; le stesse feste pagane, trasformate nel significato e nel rito, piegò a celebrare le memorie dei martiri e i divini misteri. (…) E nel discorso che abbiamo rivolto ai dirigenti delle Pontificie opere missionarie nell'anno 1944, questo tra l'altro dicevamo: «Il missionario è apostolo di Gesù Cristo. Egli non ha l'ufficio di trapiantare la civiltà specificamente europea nelle terre di missione, bensì di rendere quei popoli, che vantano talora culture millenarie, pronti e atti ad accogliere e ad assimilare gli elementi di vita e di costumanza cristiana, che facilmente e naturalmente si accordano con ogni sana civiltà e conferiscono a questa la piena capacità e forza di assicurare e garantire la dignità e la felicità umana. I cattolici indigeni debbono essere veramente membri della famiglia di Dio e cittadini del suo regno (cf. Ef 2, 19), senza però cessare di rimanere cittadini anche della loro patria terrena»".

Ecco un passaggio di fondamentale importanza, in cui viene esplicitato in modo chiaro, quello che in fondo è stato sempre fatto dai missionari, con più o meno fortuna e abilità. Il Papa ribadisce quanto era già nella pratica: trattenete ciò che è buono, direbbe San Paolo; l'obbiettivo era quello di conseguire una sintesi più alta. Un documento che consegue all'insegnamento precedente di Pio XII è la Musicae Sacrae Disciplina (25 dicembre 1955). Tralasciamo in essa tutta la parte dottrinale, certo di grande interesse ma non necessaria nella presente esposizione, solo ricordando che in essa Pio XII ripresenta i principi sulla musica sacra già esposti dal suo predecessore San Pio X. Ma vediamo i passaggi relativi alle missioni: "Ciò che abbiamo esposto finora vale soprattutto per quelle nazioni appartenenti alla chiesa, nelle quali la religione cattolica è già saldamente stabilita. Nei paesi di missione non sarà certo possibile mettere tutto ciò in pratica, prima che sia cresciuto sufficientemente il numero dei cristiani, si siano costruite chiese spaziose, le scuole fondate dalla chiesa siano convenientemente frequentate dai figli dei cristiani e infine vi sia un numero di sacerdoti pari al bisogno. Tuttavia esortiamo vivamente gli operai apostolici, che faticano in quelle vaste estensioni della vigna del Signore, a volersi occupare seriamente, tra le gravi cure del loro ufficio, anche di questa incombenza. È meraviglioso vedere quanto si dilettino delle melodie musicali i popoli affidati alla cura dei missionari e quanta parte abbia il canto nelle cerimonie dedicate al culto degli idoli. Sarebbe pertanto improvvido che questo efficace sussidio per l'apostolato venisse tenuto in poco conto o addirittura trascurato dagli araldi di Cristo vero Dio. Perciò i messaggeri dell'Evangelo nelle regioni pagane, nell'adempimento del loro ministero, dovranno largamente fomentare questo amore del canto religioso, che è coltivato dagli uomini affidati alle loro cure, in modo che questi popoli, ai canti religiosi nazionali, che non di rado vengono ammirati anche dalle nazioni civili, contrappongano analoghi canti sacri cristiani nei quali si esaltano le verità della fede, la vita del Signore Gesù Cristo, della beata Vergine e dei santi nella lingua e nelle melodie famigliari a quelle genti. Si ricordino altresì i missionari che la Chiesa cattolica, fin dai tempi antichi, inviando gli araldi dell'Evangelo in regioni non ancora rischiarate dal lume della fede, insieme con i sacri riti ha voluto che essi portassero anche i canti liturgici, tra cui le melodie gregoriane, e ciò affinché i popoli da chiamare alla fede, allettati dalla dolcezza del canto, fossero più facilmente mossi ad abbracciare le verità della religione cristiana". Ecco ancora presentata questa pedagogia dell'incontro fra civiltà per una fecondazione reciproca per il quale il Pontefice mette in risalto il ruolo di modello del canto gregoriano.

Cosa dice il Vaticano II?

Il Concilio, nel paragrafo 119 della costituzione Sacrosanctum Concilium, affronta il problema della musica nelle missioni. In pratica viene affrontato, come se fosse una novità, quello che in epoca più tarda sarà uno dei problemi chiave della riforma liturgica: l’inculturazione. Tradurre il messaggio del Vangelo in culture diverse e a volte lontane, è una sfida enorme che la liturgia ha dovuto affrontare repentinamente e con ancora più forza non appena si è affacciata l’opportunità di celebrare nelle lingue volgari.

Vediamo cosa dice il paragrafo 119 del VI capitolo: “In alcune regioni, specialmente nelle missioni, si trovano popoli con una propria tradizione musicale, la quale ha grande importanza nella loro vita religiosa e sociale. A questa musica si dia il dovuto riconoscimento e il posto conveniente tanto nell’educazione del senso religioso di quei popoli, quanto nell’adattare il culto alla loro indole, a norma degli articoli 39 e 40. Perciò, nella formazione musicale dei missionari si procuri diligentemente che, per quanto è possibile, essi siano in grado di promuovere la musica tradizionale di quei popoli, tanto nelle scuole, quanto nelle azioni sacre.” Ora alcuni aspetti vanno subito rilevati; ci sono termini che vanno evidenziati per porli sotto una luce speciale: missioni, tradizione musicale, vita religiosa e sociale, dovuto riconoscimento e posto conveniente, senso religioso, indole. Ognuno di questi termini meriterebbe una trattazione accurata ed esaustiva, che ne rilevasse anche i cambiamenti semantici occorsi da quarant’anni a questa parte. Le chiese allora oggetto di missione, sono oggi spesso più fiorenti e vivaci di molte chiese della vecchia e cristiana Europa e hanno sviluppato forme cultuali estremamente partecipate (proprio nello spirito di questo articolo).

Non perdiamo la sottolineatura iniziale del paragrafo: si dice in “alcune regioni” (e quindi non in tutte), “specialmente” (ma non esclusivamente) nelle missioni, ci sono popoli con una propria “tradizione musicale”. Quando si affrontano termini come “tradizione” o “cultura” è già quasi sicuro che ci saranno contrapposizioni violente tra coloro che ne danno interpretazioni dissimili e difformi. Noi spesso pensiamo alle missioni e ci immaginiamo sperduti villaggi africani o atmosfere asiatiche. La SC non poteva prevedere in quale maniera la cultura sarebbe cambiata, come ci sarebbero stati movimenti (specie negli anni 60 e 70) che avrebbero condizionato abitudini, modi di fare e di pensare. Credo che negli anni successivi al Concilio, da parte del Magistero e della cultura cattolica, ci sia stato un cambiamento che non è stato sempre salutare. Ora di seguito, presentiamo alcuni punti di riflessione per inquadrare meglio il problema della musica nelle missioni e cosa esso significa nel nostro oggi.

Alcuni punti per riflettere

1) La musica è un linguaggio, è un codice espressivo attraverso cui un messaggio da un soggetto dato che chiameremo A arriva ad un ricevente dato che chiameremo B. Il contenuto intellettuale del messaggio, viene mediato da un codice, cioè un suo modo di essere che rende riconoscibile il messaggio a chi lo deve ricevere. Quindi, il ricevente deve riconoscere il codice usato per “decodificare” il messaggio, altrimenti ne rimane all’oscuro. Facciamo un esempio con questo articolo: letto da un Italiano, viene perfettamente compreso, in quanto utilizzo una lingua comune alla quasi totalità dei fruitori della rivista. Se lo legge un Tedesco che non sa l’italiano, non c’è possibilità di comunicazione. Il codice stesso poi, si presta a diverse accentuazioni che chiameremo per facilitare il discorso, “espressive”. Io posso dire “la musica liturgica in Italia ha molti problemi”, posso dire “la musica liturgica in Italia è un disastro”, posso dire “la musica liturgica in Italia fa pietà!” Ho espresso più o meno lo stesso concetto ma il messaggio comunica sensazioni diverse a chi lo riceve. Veniamo a noi. Il Concilio ha inserito quel paragrafo che abbiamo letto prima insieme proprio per dire: nelle terre che ignorano i nostri codici, cercate di inculturare la musica nei loro. Ma in realtà questo messaggio, forse dettagliato meglio, era presente anche nei documenti precedenti in cui si chiedeva di prendere ciò che di buono era presente nei popoli che si evangelizzava. Non dimentichiamo anche quanto ebbe a dire il Beato Paolo VI a Kampala in occasione del Simposio dei vescovi africani (1): “L’espressione, cioè il linguaggio, il modo di manifestare l’unica fede può essere molteplice e perciò originale e conforme alla lingua, allo stile, all’indole, al genio, alla cultura di chi professa quell’unica fede. Sotto questo aspetto un pluralismo è legittimo, anzi auspicabile.” Come visto, questo adattamento è stato sempre tentato ed è stato sempre concepito come un incontro, in modo che una cultura nativa cattolica possa fecondare l'altra e riceverne anche stimoli importanti.

2) Ci troviamo di fronte a due modelli: l’acculturazione e l’inculturazione, come dice il prete e musicista Ricky Manalo, CSP, nel suo articolo “Moving beyond tokenism” in “Today’s liturgy”, settembre-novembre 2003. Questo pezzo affronta questi argomenti in una maniera molto interessante e da esso prendo alcuni dei concetti che esprimo su acculturazione e inculturazione. La prima è, per usare una formula matematica, quando A+B è uguale a AB. Nell’inculturazione invece A+B è uguale a C, cioè ad una nuova espressione che sintetizza il meglio delle due o più culture da cui scaturisce. E, per fare questo, non ci illudiamo, ci vogliono musicisti preparati e disposti ad ascoltare, che sappiano fecondare il nuovo con l’antico e dare vita a nuove forme di arte. Mi colpì leggere questa frase in un opuscolo comprato in una libreria evangelica a Hong Kong e in cui l’autrice pensa alla riconquista della leadership culturale da parte dei musicisti di Chiesa: “Prova a immaginare! I musicisti di musica profana che spendono ore a studiare i nostri album, a provare di capire le nostre ultime tecniche!” (Beverly Anne Sumrall, “The musician’s ministry”, Using your gift series, Filippine 1993, pag. 5). Questo modello può essere valido anche per la forma straordinaria del rito romano, pensando che in fondo è stato sempre il modo in cui si sono mossi i missionari, salvaguardando la preminenza dei testi del messale, del latino e del canto gregoriano, ma permettendo che essi fecondassero e si facessero fecondare con culture indigene, come era successo in Macao o nelle Reduciones in Paraguay.

Non bisogna dimenticare che lo stesso Monsignor Marcel Lefebvre si era posto questo problema durante il suo tempo in Africa: "Preparando nel 1956 la prefazione all'opera collettiva Des prêtres noirs s'interrogent, Monsignor Lefebvre si mostra favorevole ad una certa africanizzazione della liturgia. Egli riconosceva che non c'è "alcun obbligo di mantenere esclusivamente le melodie di composizione europea" e che in proposito c'è "un lavoro da compiere, in tutte le lingue e su alcune melodie del paese"; ammette "la danza religiosa" durante le feste che si svolgono all'aperto e i cortei, ma non durante le processioni; suggerisce di affidare ad artisti indigeni la pittura e la scultura delle chiese" (Bernard Tissier de Mallerais, "Mons. Marcel Lefebvre. Una vita". 2005, Tabula Fati, pag. 269). La sua posizione era di mentalità molto più aperta di quello che i suoi denigratori vogliono far credere. Quello che egli, anche in Concilio, opporrà era l'abuso di queste possibilità, non l'incontro delle culture ma che una cultura di arrivo e da evangelizzare, rimpiazzi l'altra senza averne ricevuto la necessaria purificazione. Ricordiamo anche, come mi ricordava il musicologo francese Jacques Viret, il lavoro fatto dai monaci di Solesmes stessi nella loro fondazione senegalese di Keur Moussa, dove trovarono melodie tradizionali con similitudini molto marcate con il canto gregoriano e con la potenzialità di essere integrate nei repertori liturgici.

3) Ci sia l'attenzione nel non annacquare il concetto di evangelizzazione. Ho notato che oggi, nelle terre che un tempo erano definite di missione, alcuni missionari spingono il loro apprezzamento per le culture locali fino al punto di disprezzare la propria. Questo non è solo male per se stessi, ma anche per i popoli che intendono evangelizzare. Se un missionario non porta un messaggio forte, che necessità c'è per lui di andare a confermare agli altri che stanno bene come stanno? Il cattolicesimo è proprio un cambio di paradigma nella propria esistenza e l'evangelizzazione, senza distruggere quello che è buono nelle altre culture, dovrebbe veramente condurre a quello che i Papi anche prima del Concilio auspicavano, una sintesi più alta.

4) Non dimentichiamo che al giorno d'oggi, i popoli in cui c'è ancora una percentuale molto bassa di cattolici, non sono più popoli che vivono in condizioni di povertà o indigenza come poteva accadere in passato, ma sono spesso economicamente più dinamici di buona parte dei paesi della già cattolica Europa. In un certo senso, questo comporta una dimensione positiva visto che permette al missionario di concentrarsi su quello che veramente conta, ossia l'annuncio della fede. In alcuni popoli dell'Asia questo progresso economico e materiale non si accompagna ad un progresso spirituale. Compito del missionario è fare riscoprire le ricchezze spirituali che sono insite nella cultura di questi popoli, pensiamo ai Cinesi, ma anche e soprattutto annunciare il Signore attraverso la via della bellezza, attraverso i tesori di arte e musica, attraverso la ricchezza teologica e spirituale della liturgia senza che essa debba essere sfigurata per farla divenire qualcosa che non può e deve essere. Questi popoli, sembra strano a dirsi, ma sono in grado di apprezzare la vera e sana cultura cattolica molto più di quello che avviene dalle nostre parti. Si annunci il Cattolicesimo integrale con prudente fermezza, con la segreta speranza di vedere presto i frutti rigogliosi che la nostra Tradizione, quando annunciata per ciò che è e non accantonata come cosa da vergognarsi, è in grado di produrre.

Aurelio Porfiri

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(1) Tratto da “Encicliche e discorsi di Paolo VI”, vol. XIX, Paoline, Roma 1970, pp. 48-54 in “Credere oggi-Correnti teologiche del novecento” di G. Canobbio, pag. 23.