Lettera 86 pubblicata il 3 dicembre 2016

LA FUNZIONE DELLE ANTIFONE DI INTROITO, OFFERTORIO E COMUNIONE

Ecco il quinto articolo a firma del Maestro Aurelio Porfiri per proseguire la serie delle nostre lettere dedicate al rapporto fra la musica liturgica e la forma straordinaria del rito romano.

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Con questo scritto si tocca uno degli elementi più forti nell'ambito dello scempio che si è fatto della musica sacra negli ultimi decenni: l'abbandono delle antifone proprie del messale. Bisognerà riflettere sulla funzione importante che svolgono queste antifone nell'ambito della celebrazione liturgica e identificare i nodi problematici che si sono verificati con il loro progressivo abbandono nella pratica liturgica.

Nella forma straordinaria del rito romano la funzione di questa antifona è stata abbastanza preservata, e dico "abbastanza" in quanto anche nella forma straordinaria si sono talvolta trovate scappatoie che non sono di per sé illegittime, ma che dovrebbero essere considerate come momentanee evasioni da quella che è la norma liturgica, che vuole che queste antifone vengano proposte nei momenti a loro propri. Direi che proprio su questo punto si è verificato uno dei fallimenti più forti della forma ordinaria del rito romano, che ha praticamente abbandonato queste antifone alla recitazione svogliata e silenziosa di alcuni sacerdoti dopo che qualcuno ha intonato un canto con testo spesso solo vagamente liturgico, canti che solitamente non hanno nulla a che fare con lo spirito di quella particolare domenica, di quella particolare festività.

Sono testimone di chiese dove si canta tutte le domeniche lo stesso identico canto all'introito, creando un senso di spaesamento liturgico negli astanti, che si chiedono se sono in Quaresima o in Avvento, visto che al giorno d'oggi, visti i cambiamenti climatici, neanche giudicare dal tempo aiuta.

Sull'origine delle antifone

L'origine delle antifone del Proprium Missae è certamente molto antica. Non abbiamo moltissime notizie che riguardano il canto nei primi secoli dell'epoca cristiana. Certo, abbiamo passaggi di scrittori cristiani da cui possiamo ricostruire, con le cautele del caso, alcuni momenti di questo processo di sviluppo.

Nei primi tempi dell'era cristiana, oltre alle testimonianze della Scrittura, per la verità non abbondanti, ne abbiamo altre che attestano gli usi liturgici e musicali della primitiva comunità cristiana. Abbiamo una testimonianza importante di Filone Alessandrino, filosofo ebreo, nato nel 25 a.C. e morto nel 41 d.C. Ci offre un'interessante resoconto sui Terapeuti, che sembrano essere dei convertiti cristiani che però ancora vivevano secondo le usanze giudaiche: "Dopo il pasto celebrano la veglia sacra. Essa si svolge così: a metà della festa essi si alzano ed in mezzo alla sala del convito si vengono a formare due cori, uno maschile ed uno femminile. Colui che meglio canta e danza viene scelto quale guidatore di ciascun coro. Allora essi cantano degli inni composti a lode di Dio, in vari metri e toni […] con l'accompagnamento di battito delle mani e danzando estaticamente. Dopo l'esecuzione festosa effettuata da ciascuno dei cori […] si uniscono in un coro unico: sull'esempio di quanto avvenne sulle rive del Mare Rosso […] elevando inni di ringraziamento a Dio salvatore, come fecero, allora, Mosè profeta a capo degli uomini e Myriam profetessa guida delle donne. Il canto dei Terapeuti e delle Terapeutici con le voci acute delle donne unite a quelle gravi degli uomini producono un'esecuzione antifonica in alternanza" (1). Viene qui citato il "canto antifonico", cioè quello stile di canto per cui due cori si alternano nell'esecuzione. Non deve sorprendere la citazione di battiti di mani e danze estatiche, in quanto stiamo parlando di un periodo di sviluppo iniziale del cristianesimo e certi fenomeni verranno poi accantonati quando l'oggettività della liturgia prenderà il posto di queste prime e incerte manifestazioni iniziali.

Come esempio, diamo uno sguardo all'origine dell'antifona di introito. Una certa tradizione, oggi contestata, attribuisce l'istituzione delle antifone di introito a Papa San Celestino I (422-432). Questa notizia, contenuta nel Liber Pontificalis (LP), non è ritenuta molto attendibile da alcuni storici della liturgia, anche se sappiamo che l'uso delle antifone di introito era comunque attestabile al tempo della compilazione del LP stesso, nella prima metà del VI secolo: “Tutti i liturgisti si rifanno ad un passo del Liber pontificalis secondo cui sarebbe stato Papa Celestino I (m. 432) ad introdurre in Roma il canto antifonico come canto per l’Introito. Comunque sia la verità storica, a noi ignota per mancanza di documenti, è certo però che quando l’autore del LP scrisse una tale notizia, cioè prima della metà del sec. VI, tale canto doveva essere già in uso” (2); “Il Liber Pontificalis (scritto nella I metà del secolo VI) attribuisce l’iniziativa del canto antifonico dei salmi a modo di Introito al papa Celestino I (422-432). Ma l’affermazione non è storicamente sicura; è più prudente limitarsi a dire che l’Introito fu introdotto nel secolo V e che non se ne conosce con sicurezza l’iniziatore” (3); “L’introduzione della salmodia nella Messa Romana è attribuita a Papa Celestino I (c. 432)” (4); “Il pontefice Celestino estende questo uso di cantare i salmi dall’Ufficio vigiliare alla Messa ed intanto s’introduce un’importante novità, che dura ai nostri giorni: far precedere al salmo un breve canto che si ripeterà ogni due versetti e alla fine” (5); “Si narra che Celestino I (422-32) avesse disposto di cantare Salmi antifonici prima dell’Offertorio. Si ritiene che questa sia la più antica testimonianza, per quanto piuttosto discutibile, sull’Introito” (6).

Insomma, c'è una convergenza nell'affermare che almeno l'antifona di introito fosse già presente nella prima metà del VI secolo, se non precedentemente. Ecco il testo che ci interessa: “Egli fece molte prescrizioni e stabilì che i 150 salmi di Davide fossero cantati alternativamente da tutti, cosa che non si usava fare prima, proclamandosi (7) solamente l’Epistola di San Paolo e il Santo Vangelo.” (8) Dunque, questo è il primo testo che un’ampia tradizione musicologica indica come testimone dell’introduzione dell’introito nel rito Romano. Ma con molti se e ma.

Le tesi di Duchesne, Schuster e Wagner

Intanto vediamo cosa ce ne dice lo stesso Duchesne, nelle note che egli compila per l’edizione completa del LP. Ci dice che il canto dei salmi antifonico (cioè cantato a cori alterni) viene introdotto dall’oriente, come testimoni autori come San Basilio, Teodoreto e Socrate (9) e quindi in Italia attraverso la Chiesa di Milano, nell’anno 387. Sulla notizia specifica del LP l’autore francese è molto prudente, specialmente quando tratta le parole “[cantato] alternativamente da tutti” sostenendo che qui il secondo redattore dello stesso ha glossato sulla versione primitiva (quindi quell’“antephanatim ex omnibus” sarebbe un’interpolazione). Ma la cosa importante è che il Duchesne vede in questa notizia l’istituzione dell’ufficio divino e non fa cenno all’introito (10).

Molto interessante anche quello che ci dice lo Schuster (11) su questo argomento. La salmodia antifonica, sostiene l’insigne studioso (poi cardinale e oggi Beato), appare in Siria nel secolo IV circa e ha un tale successo che si diffonde rapidamente in tutte le Chiese, come ci attesta il biografo di Sant’Ambrogio, Paolino da Nola. Ma cosa era questa salmodia della chiesa primitiva? Leggiamo come espone l’argomento lo stesso Schuster: “Peter Wagner [“Origine e sviluppo del Canto Liturgico”, versione di Mario Righetti, Siena 1910, pag. 21] fa notare che antifona è un termine teorico della musica greca che non significa “canto alternato” come si traduce molte volte, ma “canto in ottava”. Per conseguenza se uomini e donne cantano all’unisono si avrebbe l’antifona. In tal senso l’antifona è sempre esistita. L’innovazione di Antochia dovette consistere piuttosto nel dividere due cori, maschile e femminile, nel canto dei salmi, facilitando però l’esecuzione col premettere al salmo una breve frase da ripetersi poi fra i versetti salmodici, cantati da un gruppo di esecutori. Tutti in fine si univano ripetendo la frase iniziale in ottava. E’certo che per San Benedetto (m. 547) imponere antiphonam significa iniziare il versetto o la frase da ripetere come ritornello [Regula Mon., c. 24]. Tale frase poteva essere o il primo o un altro dei versetti del salmo.” (12) Anche il racconto di Sozomeno sulla traslazione delle reliquie di San Babila in Antiochia, mentre regnava Giuliano l’Apostata (m. 363) ci offre un’interessantissima testimonianza: “Cantavano prima degli altri quelli che conoscevano bene i salmi. La folla poi rispondeva con armonia, e cantavano in risposta questo versetto: Confusi sunt omnes qui adorant sculptilia, qui gloriantur in simulacris.” (13)

Una tesi sull’introduzione della salmodia antifonica a Roma diversa da quella di Celestino I, ce la porta il Wagner citato sempre dal testo di Schuster. Questo autore suggerisce l’anno 382, durante un concilio presieduto da papa Damaso e in cui si trovavano molti vescovi orientali che conoscevano bene questo modo di salmodiare (14). Per quanto riguarda la frase che a noi interessa, quella che sta nella vita di papa Celestino I, lo Schuster crede che non si riferisca all’introduzione dell’introito nella liturgia Romana, ma bensì ad una speciale vigilia di 150 salmi che già era conosciuta dal secolo IV e che si troverà in seguito anche in altri luoghi (15). Quindi come vediamo, troviamo già due insigni studiosi (Duchesne e Schuster) che negano la derivazione dell’istituzione dell’introito dalla notizia contenuta nel LP.

Per una idea più ampia sullo sviluppo del Proprium Missae, un testo di riferimento è certamente "The Advent Project" (16), un testo interessantissimo per capire quali potrebbero essere stati i tempi e le motivazioni dello sviluppo di questa parte del rito. Altro testo fondamentale è "Du chant romain au chant grégorien" (17) che nelle sue più di 800 pagine si occupa di ricostruire quel passaggio fondamentale nella storia del canto liturgico che fu la nascita del canto gregoriano, derivazione ed espansione di repertori esistenti, toccando ovviamente la questione delle forme liturgiche e dei repertori.

Una notevole importanza spirituale

Insomma, sia quello che sia, ciò che possiamo affermare è che il canto salmodico nella Messa è di origine comunque molto antica. Se non dobbiamo soffermarci a lungo sul profilo storico, dobbiamo almeno accennare all'importanza spirituale di queste antifone. Esse forniscono un commento puntuale a quella data celebrazione, assecondando la importante pedagogia dell'anno liturgico. Sappiamo che anticamente, ma ancora oggi è possibile riferire di questo uso, le domeniche dell'anno liturgico spesso prendevano il nome dall'inizio del testo dell'introito, per questo potevamo dire domenica Laetare, Gaudete, Quasi modo e via dicendo. Ogni domenica era connotata in modo diverso, era un camminare sulla via della salvezza attraverso la saggezza pedagogica della liturgia.

Papa Francesco ha affermato recentemente che Martin Lutero ha riportato l'attenzione dei fedeli sulla Parola di Dio. La stessa Parola di Dio che era così profondamente presente nelle antifone del Proprium che, nella forma ordinaria del rito romano, sono state praticamente messe da parte, se non abbandonate. Le antifone sono la sinergia tra il momento celebrativo, il momento storico e la Parola di Dio. Questa unione particolare (e non generica, come avviene con l'uso di canti anche con testi biblici ma che non scaturiscono dai testi di una data domenica in cui si celebra il Mistero sotto una particolare visuale) ci porta a riflettere sul hic et nunc, su quello che sta avvenendo ora, in una domenica particolare e non in una celebrazione indistinta. Certamente, si potrebbe dire che le letture già bastano a connotare la domenica dal punto di vista liturgico, ma questo non è del tutto vero, in quanto tutti sappiamo l'importanza della musica e del canto per imprimere concetti e cose nella memoria. Ecco perché vengono usate per i bambini delle filastrocche per imparare l'alfabeto o altri concetti, perché il canto è più efficace nel far ritenere a mente certe idee piuttosto che la mera lettura. Ecco perché nel canto responsoriale si ripete una antifona molte volte, così come nelle nostre antifone del Proprium, in quanto in questo modo il testo poteva imprimersi nella memoria del fedele, insieme alla impressione profonda causata dalla musica che lo rivestiva.

Si dà oggi molta importanza alla comunicazione verbale, ai discorsi del celebrante che infiorettano ogni momento possibile del rito liturgico, ma non si capisce che la comunicazione che veramente passa è quella emotiva, i gesti, i suoni, i colori, gli odori... Perché la Chiesa avrebbe speso cifre astronomiche per composizioni musicali, opere architettoniche, dipinti, sculture? Perché sapeva che era il modo per parlare alle persone con efficacia enormemente maggiore. Nella forma straordinaria c'è stato più rispetto anche se è vero che era spesso invalso l'uso di cantillare i testi delle antifone per poi affidarsi a mottetti con testi più generici, come Iubilate Deo, Cantate Domino, Pange Lingua, O Salutaris Hostia e via dicendo. Questo problema della valorizzazione delle antifone, in un modo certo diverso ma non meno importante, riguarda quindi anche la forma straordinaria, anche se non in modo così devastante come è successo e succede per la forma ordinaria del rito romano.

La tentazione dell'indistinto

Credo però che non sarà inutile riflettere sul come questa idea dell'indistinto ha una sua importanza, in quanto io ritengo che il voler abbandonare la funzione di queste antifone come se esse non avessero più importanza per la funzionalità del rito, risponde direttamente o indirettamente ad un disegno più ampio, un disegno che non è semplicemente liturgico ma che tocca tutti gli ambiti umani. Infatti non è oggi il tempo dell'indistinto? Non si cerca di favorire la "produzione" di esseri umani la cui identità sociale, politica, religiosa, sessuale, culturale venga scoraggiata come cosa pericolosa alla convivenza civile? Mi sembra che questa tentazione dell'indistinto abbia ormai preso vita anche nelle nostre liturgie.

Qualcuno potrebbe obbiettare che, visto che la gente prima non capiva il latino, quelle liturgie erano anche indistinte ma, in realtà, questo ragionamento è un partire dalla realtà antropologica più che dalla realtà del rito. Il rito ha senso se visto e vissuto dal suo interno, non solo e semplicemente per ciò che di esso viene percepito. Nel caso della nostra comprensione del rito non c'è un problema nello stesso, ma in noi e va affrontato. Nel discorso che facciamo qui (dell'abbandono di certi testi) c'è un discorso che tocca direttamente il rito, non soltanto chi li fruisce. Poi non è vera in senso assoluto l'accusa di cui sopra, in quanto è proprio il canto e la musica che distingueva e distingue le liturgie e che favorisce una memorizzazione dell'evento. Lo è in misura minore (non di importanza, semplicemente come impatto) ciò che viene letto, in quanto la gente fatica a ritenere le cose che vengono lette a memoria, specie nel caso di testi di alta teologia e con concetti spesso molto difficili.

Le antifone erano (e sarebbero) un segnale identitario forte che non dovrebbe mai essere abbandonato. Ma, come detto, il mondo odierno tende all'indistinto, come accade nella filosofia New Age: "Nel vasto labirinto culturale e religioso dell'era dell'Acquario e del suo immaginario misterico, il New Age o la nuova era, si afferma come una sorta di pre e post teismo, una ricerca sfrenata, mediatica e sincretica di una divinità senza volto e di un Dio che ha perso ogni faccia. Fino ad assumere il volto umano, troppo umano, dell'uomo che realizza nella conoscenza interiore la presenza ontologica del divino indistinto" (18). Questo indistinto, che troviamo anche nella questione del gender, dove si tenta di sfumare le differenze fra l'elemento maschile e quello femminile, dove la appartenenza sessuale diviene una questione di scelta e non di natura, lo troviamo anche in tante tendenze in atto nella Chiesa Cattolica, dove la dottrina viene svalutata a favore di un indistinto concetto di bontà che si applica urbi et orbi con esclusione di coloro che sollevano dubbi se questo sia in linea con la Scrittura e la Tradizione.

L'indistinto si verifica anche nei nostri riti, quando non diamo importanza alla pregnanza propria ad ogni liturgia. Questo dire insistentemente che la Chiesa deve uscire da se stessa per andare nelle periferie può essere equivocata, in quanto è vero che la Chiesa deve andare verso le periferie esistenziali ma con se stessa, non come cosa altra.

Romano Amerio vedeva questo pericolo dell'andare "oltre se stessi": "La Chiesa diviene, ma non muta. Non si dà in essa novità radicale. Il cielo nuovo e la terra nuova, la nuova Gerusalemme, il cantico nuovo, il nome nuovo di Dio medesimo non sono realtà della storia del mondo, ma del sopramondo. Il tentativo di spingere il Cristianesimo oltre sé stesso fino a «une forme inconnue de religion, une religion que personne ne pouvait imaginer et décrire jusqu’ici», come non teme di scrivere Teilhard de Chardin, è un paralogismo e un errore religioso. È un paralogismo, perché se la religione cristiana ha da mutarsi da tutt’altro in tutt’altro da sé, diviene impossibile dare alle proposizioni del discorso l’identico soggetto e perisce la continuità tra la presente Chiesa e la futura. È un errore religioso, perché il regno che non si origina da questo mondo conosce mutazioni nel tempo, che è una categoria accidentale, ma non già nella sostanza. Di questa sostanza «iota unum non praeteribit». Nemmeno uno iota muterà. Teilhard non può preconizzare un andare del Cristianesimo oltre sé stesso, se non perché dimentica che andare oltre sé stesso, cioè passare il limite (ultima linea mors) significa morire e che così il Cristianesimo dovrebbe morire, anzi morire per non morire" (19).

Insomma, questa idea dell'abbandonare i fondamenti per vagare verso un ignoto, e per questo indistinto, caratterizza la nostra epoca e lo troviamo, in forma microstorica, anche nel discorso sul Proprium Missae. Seguiamo ancora Amerio: "L’asserita opzione fondamentale, cioè per un altro fondamento, è cattolicamente assurda. Primo, perché l’uscire della Chiesa dalla Chiesa significa propriamente apostasia. Secondo, perché, come dice I Cor., 3,1, «nessuno può porre un fondamento diverso da quello che è stato posto, che è Cristo Gesù». Terzo, perché non è possibile rifiutare la Chiesa nel suo essere storico, che nella sua continuità fu apostolica, costantiniana, gregoriana, tridentina, e saltare programmaticamente i secoli, come confessa di voler fare il p. Congar: «le dessein est d’enjamber quinze siècles». Quarto, perché non si può scambiare l’uscita missionaria della Chiesa nel mondo con l’uscita della Chiesa fuori di sé stessa. Quest’ultima infatti è un passaggio dal proprio essere al proprio nonessere, mentre l’altra è l’espansione e propagazione del proprio essere al mondo. È d’altronde storicamente incongruo caratterizzare per missionaria la Chiesa contemporanea, che non converte più nessuno, e negare un tal carattere a quella che in tempi a noi vicini convertì Gemelli, Papini, Psichari, Claudel, Péguy ecc. Per tacere, naturalmente, delle missioni di Propaganda fide fiorenti e gloriose sino ad epoca recente" (20).

Insomma, si dovrebbero ritrovare i fondamenti, il senso della ritualità e quindi anche il ruolo di certe parti del rito, piuttosto che avventurarsi in un continuo ignoto, piuttosto che favorendo il non certo, piuttosto che volendo abbracciare le nebbie immateriali ed evanescenti dell'indistinto.

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(1) “De vita contemplativa”, 83-88.
(2) ALFREDO PELLEGRINO ERNETTI (1990). Storia del canto gregoriano, terza edizione, pagg. 116-117.
(3) VALENTINO DONELLA (1991). Musica e liturgia, Edizioni Carrara, Bergamo, pag. 170.
(4) THEODORE KARP (1998). Aspects of orality and formularity in gregorian chant, Northwestern University Press, Evanston Ilinois, pag.28.
(5) COSMA PASSALACQUA (1963). Biografia del gregoriano, Nuova Accademia Editrice, Milano, pag. 40.
(6) WILLI APEL (1998). Il canto gregoriano, Libreria Musicale Italiana Editrice, Lucca (ed. orig. Indiana University Press, 1958) pag.58.
(7) Qui, per il termine latino recitabatur abbiamo preferito il verbo proclamare che è più vicino al senso della parola latina, cioè “dire qualcosa con voce alta”.
(8) Liber Pontificalis, a cura di Louis Duchesne, pag. 230. Naturalmente questo testo riporta il testo nell’originale latino che qui di seguito riportiamo: “Hic multa costituta fecit et constituit ut Psalmi David CL ante sacrificium psalli antephanatim ex omnibus, quod ante non fiebat, nisi tantum epistola beati Pauli recitabatur et sanctum Evangelium.” Seguendo l’opinione di esperti della lingua latina con cui mi sono consultato, sembra che questo testo presenti alcune incertezze lessicali. Voglio ringraziare il professor Nicola Calbi, il professor Reginald Foster e Angela Lam per i preziosi consigli che mi hanno fornito.
(9) Historia Eccl., II, 19. Questo autore fa istitutore del canto antifonico Sant’Ignazio di Antiochia (I sec. d.C.) che “avendo udito gli angeli cantare alternativamente degli inni in lode della SS. Trinità, stabilì nella chiesa di Antiochia questa maniera di cantare.” Citato in SCHUSTER, Liber Sacramentorum, vol. III. Lo Schuster non dà molta fede a questo racconto.
(10) Liber Pontificalis, ed. Duchesne, pag. 230.
(11) ILDEBRANDO SCHUSTER (1967). Liber Sacramentorum, Vol. III, Marietti, pagg. 64-68.
(12) I. SCHUSTER, Liber Sacramentorum, vol. III, pag. 65.
(13) SOZOMENO, Historia Ecclesiastica, V, 19 in I. SCHUSTER, Liber Sacramentorum, vol. III, pag. 65.
(14) I. SCHUSTER, Liber Sacramentorum, vol. III, pag 66.
(15) DE PUNIER in Rev. Greg. 24 (1939) pagg. 172-185 cit. in I. SCHUSTER, Liber Sacramentorum, vol. III, pag 66.
(16) JAMES Mc KINNON (2000), The Advent Project. The later-seventh-Century Creation of the Roman Mass Proper. Berkley and Los Angeles (CA): University of California Press.
(17) PHILIPPE BERNARD (1996), Du chant romain au chant grégorien (IV-XIII siècle). Paris: Les éditions du Cerf.
(18) EDOARDO SCOGNAMIGLIO (2001). Il volto di Dio nelle Religioni. Una indagine storica, filosofica e teologica. Milano: Edizioni Paoline, pag. 360.
(19) ROMANO AMERIO (1989). Iota Unum. Studio delle variazioni della Chiesa Cattolica nel secolo XX. Milano - Napoli: Riccardo Ricciardi Editore, pag. 10.
(20) AMERIO 1989, pagg. 99-100.